Gli atti del delegato si contestano solo col reclamo
Chi si oppone al verbale di aggiudicazione di un immobile, disposto dal professionista delegato nell'ambito di un'esecuzione forzata, può farlo solo con reclamo ai sensi art. 591 ter c.p.c. e non col generico rimedio dell'opposizione agli atti esecutivi di cui all'art. 617 c.p.c. Questa, la corretta interpretazione del nuovo art.
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Una recente sentenza del giudice di Pace di Napoli ex Pozzuoli (disponibile al seguente link: http://www.iussit.com/circolazione-assicurazione-risarcimento-danni/2/), si è trovata ad affrontare la vicenda di un sinistro nel quale risultava coinvolto un veicolo sprovvisto di assicurazione per la R.C.A.. Fattispecie, quest'ultima, tutt'altro che infrequente, se si considera che, stando alle più recenti statistiche, in Italia circolerebbero circa 4 milioni di veicoli privi dell'assicurazione obbligatoria.
Nel caso di specie, poi, la vettura danneggiata risultava sprovvista di copertura assicurativa, il che ha consentito alla impresa assicuratrice del veicolo danneggiante di contestare la pretesa attorea sulla scorta degli artt. 193 C.d.S e dell'art. 1227 c.c.. Quanto alla prima norma invocata, essa in particolare dispone che «I veicoli a motore senza guida di rotaie, compresi i filoveicoli e i rimorchi, non possono essere posti in circolazione sulla strada senza la copertura assicurativa a norma delle vigenti disposizioni di legge sulla responsabilità civile verso terzi». In proposito, il giudice adito osserva che la norma in questione non sanziona la parte che abbia posto in circolazione una vettura sprovvista di copertura assicurativa con il divieto di richiedere il risarcimento del danno. Anzi, prosegue il giudicante, la violazione dell'art. 193 C.d.S. non solo non è perseguibile d'ufficio, ma è sanzionato esclusivamente dalla comminazione di una sanzione pecuniaria. Inoltre, prosegue la sentenza in esame, l’art. 1227 c.c.,si riferisce all’inadempimento delle obbligazioni contrattuali e non, come nel caso di specie, all’adempimento extracontrattuale previsto dalla legge. Sennonché, già quest'ultima affermazione appare erronea, se solo si consideri che l'art. 2056 c.c., nel fissare i criteri per la valutazione dei danni, espressamente richiama proprio l'art. 1227 c.c.. È noto che, secondo la norma da ultimo menzionata «se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e le conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza». Peraltro, se in passato si tendeva a desumere da tale disposizione l'esistenza di un principio cd. “di autoresponsabilità”, - in virtù del quale il potenziale danneggiato sarebbe tenuto, comunque, ad adottare un comportamento improntato alla diligenza ed alla comune prudenza, volto a scongiurare il prodursi di danni - la giurisprudenza più recente ha abbandonato tale posizione, ed attualmente vede piuttosto, nel disposto di cui all'art. 1227 c.c., «un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile. Pertanto la colpa, cui fa riferimento l'art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto (perché il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui all'art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del fatto del danneggiato» (Cfr., in tal senso, Cass. Civ., SS.UU, 21 novembre 2011, n.24406). Sulla scorta delle considerazione che precedono, l'indagine che andava condotta nel caso di specie non era rivolta ad affermare o meno l'esistenza, nel vigente ordinamento, di una norma che vieti al proprietario di un veicolo che circoli sprovvisto di assicurazione di richiedere i danni patiti in conseguenza di un sinistro della strada ma, piuttosto, se l'aver circolato su di un veicolo sprovvisto di assicurazione non sia circostanza tale da escludere il nesso di causalità tra la condotta del veicolo danneggiante e il danno riportato o da concorrere nella causazione dello stesso. Ebbene, una volta ricondotta la questione nei giusti termini, non è possibile condividere la risposta fornita dalla sentenza in commento. Se, infatti, l'art. 193 C.d.S., come visto, fa divieto di porre in circolazione una vettura sprovvista di copertura assicurativa, la violazione di tale norma costituisce evidente concausa dei danni successivamente patiti nel corso della circolazione medesima. È dunque possibile affermare che, laddove una vettura circolante senza copertura assicurativa, riporti danni nell'ambito di un sinistro della strada, ai fini della determinazione dell'entità del risarcimento spettante, il giudice adito, ai sensi dell'art. 1227 c.c., dovrà tenere conto della partecipazione causale all'evento lesivo della stessa condotta del proprietario del veicolo danneggiato. Con la sentenza Cass.civ., sez. II, 14.07.2015, n. 14699, la S.C. È intervenuta a ribadire due principi sino a pochi anni fa niente affatto scontati ma che, alla luce delle più recenti decisioni, possono oggi dirsi consolidati in giurisprudenza.
L'art. 149, primo comna, del codice della strada (d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285), nel disporre che il conducente di un veicolo deve essere in grado di garantire in ogni caso l'arresto tempestivo del mezzo, evitando collisioni con il veicolo che precede, pone a carico del conducente del veicolo tamponante una presunzione "de facto" di inosservanza della distanza di sicurezza.
Questo è quanto risulta affermato da una recente sentenza della Corte di Cassazione del 30-06-2015,n. 13367. Detta presunzione, prosegue la decisione in esame, non è assoluta, sicché è consentito al conducente tamponante di fornire la prova liberatoria contraria, mediante dimostrazione che il mancato tempestivo arresto dell'automezzo, e la conseguente collisione con il veicolo che precedeva, sono stati determinati da cause in tutto o in parte ad esso non imputabili; evidentemente inclusa, tra queste, anche la condotta di guida del soggetto tamponato. Ne discende che, in caso di tamponamento, la presenza della disposizione di cui all'art. 149 C.d.S., impedisce di applicare alla fattispecie la presunzione di cui al 2^ co.art.2054 cc, secondo il principio lex specialis derogat generali, donedosi al contrario assumere, sino a prova del contrario la esclusiva responsabilità del soggetto tamponante. In virtù di tale principio, la cassazione ha quindi confermato la decisione di appello la quale, in ipotesi di tamponamento aveva affermato la distribuzione paritetica di responsabilità tra tamponato e tamponante non già in virtù di quanto disposto dall'art 2054 cit., ma per essere stata raggiunta la prova di un consistente profilo di responsabilità del veicolo tamponato desumibile dalla mancanza dei dispositivi di illuminazione idonei a porre I conducenti provenienti da tergo in condizione di avvistare in tempo utile il veicolo. In tema di responsabilità civile extracontrattuale «il nesso causale tra la condotta illecita ed il danno è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., in base al quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla scorta del quale, all'interno della serie causale, occorre dare rilievo solo a quegli eventi che non appaiano ad una valutazione "ex ante" - del tutto inverosimili». Tale il principio che può essere tratto da una recente sentenza del giudice di legittimità del 23 giugno 2015, n. 12923.
Nel caso di specie a seguito della morte del marito, avvenuta in un incidente stradale, la moglie ricoverata in ospedale per una grave patologia (tumore terminale addominale) chiede di essere dimessa e, poco dopo aver fatto ritorno a casa, muore a sua volta in conseguenza di un arresto cardiocircolatorio. I figli della coppia agiscono pertanto in giudizio, domandando, tra l'altro, anche il risarcimento dei danni da essi subiti iure proprio per la morte della madre. Sennonché tale richiesta viene disattesa da entrambi i giudici di merito, sicché la questione viene devoluta alla Cassazione. La quale si pronuncia in senso negativo, sulla scorta del ragionamento sopra riportato. La corte ribadisce, in tal modo quell'orientamento, effettivamente più volte espresso dalla S.C., secondo il quale ai fini della riconducibilità dell'evento dannoso ad un determinato fatto o comportamento, non è sufficiente che tra l'antecedente ed il dato consequenziale sussista un rapporto di sequenza temporale, essendo invece necessario che tale rapporto integri gli estremi di una sequenza possibile, alla stregua di un calcolo di regolarità statistica, per cui l'evento appaia come una conseguenza non imprevedibile dell'antecedente. Conclusivamente, il ricorso viene rigettato, con conferma, sul punto, della sentenza di appello. Precedenti giurisprudenziali: Cass. Civ., SS.UU., Sentenza n. 581 dell’11 gennaio 2008 Azione di adempimento o risoluzione del contratto: lo ius variandi di cui all'art. 1453 c.c.6/3/2015 Come noto, nell'ambito dei contratti a prestazioni corrispettive, l'art. 1453 c.c. consente di richiedere alla parte che si sia resa adempiente l'adempimento dei propri obblighi o, in alternativa, la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno.
Il secondo comma della norma in esame, poi, consente alla parte, in corso di causa, di modificare la domanda originariamente proposta, ma solo qualora il giudizio sia stato inizialmente promosso per l'adempimento e la parte decida successivamente di instare per la risoluzione; viceversa, non può più chiedersi l'adempimento quando sia stata inizialmente domandata a risoluzione del contratto. La norma dunque, oltre a consentire al contraente in regola, “a sua scelta”, di richiedere l'adempimento o la risoluzione del contratto, consente a colui che ha presentato domanda di adempimento, una volta definitivamente venuto meno l'interesse a ricevere la prestazione, di variare tale domanda in corso di giudizio chiedendo la risoluzione, in deroga al divieto di "mutatio libelli" sancito dagli artt. 183 e 345 c.p.c.. Chiamate a precisare l'esatto contenuto di tale facoltà, recentemente, le SS.UU. della Cassazione hanno affermato: «La parte che, ai sensi dell'art. 1453, secondo comma, cod. civ., chieda la risoluzione del contratto per inadempimento nel corso del giudizio dalla stessa promosso per ottenere l'adempimento, può domandare, contestualmente all'esercizio dello "ius variandi", oltre alla restituzione della prestazione eseguita, anche il risarcimento dei danni derivanti dalla cessazione degli effetti del regolamento negoziale» (Cass. Civ., SS.UU., 11 aprile 2014, n. 8510). Secondo il ragionamento seguito dagli Ermellini, tale conclusione si giustifica in quanto lo ius variandi di cui si discute deve consentire alla parte delusa, a fronte del perdurare dell'inadempimento, di rivedere la propria scelta; d'altra parte, pur avendo un diverso oggetto, la domanda di adempimento e quella di risoluzione mirano entrambe ad evitare il pregiudizio derivante dall'inadempimento della controparte Ne discende il principio secondo cui lo ius variandi «possa esercitarsi in modo completo affiancando alla domanda di risoluzione, non solo quella di restituzione, ma anche quella di risarcimento dei danni». Più di recente, la cassazione è tornata sull'argomento con la sentenza del 28.05.2015 n. 11037, occupandosi di un altro aspetto del rapporto tra azione di adempimento ed azione di risoluzione. Con tale ultima pronuncia la Cassazione, innanzitutto, ha ribadito il principio consolidato secondo cui «La disposizione dell'art. 1453 cod. civ., secondo cui nei contratti con prestazioni corrispettive la risoluzione può essere domandata anche quando inizialmente sia stato chiesto l'adempimento, fissa un principio di contenuto processuale in virtù del quale la parte che ha invocato la condanna dell'altra ad adempiere può sostituire a tale pretesa quella di risoluzione non solo per tutto il giudizio di primo grado, ma anche nel giudizio di appello, in deroga agli artt. 183, 184, 345 cod. proc. civ., sempre che non alleghi distinti fatti costitutivi e, quindi, degli inadempimenti diversi da quelli posti a base della pretesa originaria (Cass. 4/10/2004 n. 19826; Cass. 24/5/2005 n. 10927; Cass. 10/1/2008 n. 1003; Cass. 6/4/2009 n. 8234; Cass. 20/6/2014 n. 14088)». Di seguito, la corte respinto la tesi di parte ricorrente, secondo la quale essendo stata mutata la domanda in sede di precisazione delle conclusioni, il Giudice adito avrebbe dovuto dare all'altra parte la possibilità di replica sulla domanda nuova e la possibilità di addurre prove previa rimessione in termini ex art. 184 bis c.p.c. Secondo la cassazione, infatti, non risulta in alcun modo pregiudicato il diritto alla difesa, in quanto a fronte della nuova domanda la controparte avrebbe potuto e dovuto replicare, chiedendo di svolgere attività difensive, e non limitarsi ad eccepire infondatamente l'inammissibilità della domanda. In definitiva, secondo la S.C., promossa una azione per l'adempimento del contratto, la parte può in ogni momento, incluso quello della precisazione delle conclusioni, mutare la propria domanda in domanda di risoluzione contrattuale. Unico limite all'esercizio di questo "ius variandi", viene individuato nella impossibilità di indicare inadempimenti diversi da quelli già dedotti in giudizio. Tale precisazione non è di poco conto in quanto, come noto, non tutti gli inadempimenti giustificano la risoluzione del contratto, ma solo un inadempimento che abbia le caratteristiche della gravità (cfr. Art. 1455 c.c.). Qui è possibile leggere il testo della sentenza Cassazione Civile, Sez. II, sent. 28.05.2015, n. 11037 Di fronte all'inadempimento dell'obbligo di concludere un contratto, l'ordinamento prevede il rimedio di cui all'art. 2932 c.c..
L'altra parte, in buona sostanza, può procurarsi una sentenza che produca gli effetti del contratto non concluso. Naturalmente, tale rimedio appare di significativo rilievo allorquando la sentenza di cui si discorre tiene luogo di contratti che hanno ad oggetto il trasferimento della proprietà. In tale ultimo caso, il secondo comma della norma in menzione, prevede che la domanda di cui si discorre non può essere accolta se la parte istante non esegue la prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge (cd. offerta formale ex art. 1208 c.c.), a meno che la prestazione non sia ancora esigibile. Una recente decisione della S.C. (Cass. Civ., sez. III, sent. 22.05.2015, n. 10546) ha fornito un importante chiarimento in ordine ai presupposti di legge per il ricorso alla tutela di cui all'art. 2932 c.c.. In primo luogo, infatti, la Cassazione ha affermato che «l'inadempimento contrattuale può concretarsi anche prima della scadenza prevista per l'adempimento, qualora il debitore – in violazione dell'obbligo di buona fede - tenga una condotta incompatibile con la volontà di adempiere alla scadenza», e che, pertanto, «l'azione ex art.2932 cod.civ. può essere proposta anche prima della scadenza del termine di adempimento, qualora risulti già conclamata la volontà di non adempiere dell'altra parte». D'altra parte già in un'altra - e il precedente viene richiamato dalla S.C. - la Cassazione aveva avuto modo di affermare che l'inadempimento contrattuale, può essere attuale oppure, per cosi dire, anticipato – come dicono gli inglesi "anticipatory breach" cioè attuato prima della scadenza temporale prevista per l'adempimento. L'inadempimento anticipato dipende dalla violazione dell'obbligo di buona fede e di lealtà nell'esecuzione del contratto ed è attuato da comportamenti del debitore che rendono antieconomica o impossibile la prosecuzione del rapporto (Cass. Civ., sez. II, sent. 21.12.2012 n. 23823). Le considerazioni che precedono non sono per la verità nuove, si ritrovano affermate anche nella precedente giurisprudenza, v. ad es. Cass. civ., Sez. II, 09.01.1997, n. 97, la quale aveva affermato che «È stata più volte affermata da questa Corte (cfr. tra le altre, sent. n. 1721 del 1982), e qui si ribadisce, l'esistenza del generale principio della configurabilità, come inadempimento legittimante la domanda e, nel concorso delle altre condizioni di legge, la correlata pronunzia di risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive, del rifiuto di adempiere inequivocamente manifestato dal debitore, anche prima della scadenza (o della fissazione) del termine per l'adempimento» In tale caso, tuttavia, appare interessante l'aver raccordato l'inadempimento anticipato, non ad una esplicita dichiarazione di non voler adempiere, ma alla violazione degli obblighi di buona fede gravanti sulle parti di un contratto. Si segnala anche un'altro interessante passaggio della decisione in commento, con il quale la S.C. ha precisato che l'obbligo di eseguire offerta formale di adempimento, previsto dal terzo comma dell'art. 2932 c.c. quale condizione per l'accoglimento della domanda, non opera quando la prestazione non sia ancora esigibile. In tal caso, conseguentemente, il contraente che intenda avvalersi dell'azione de quo può limitarsi a formulare un'offerta di adempimento anche non formale o per intimazione ai sensi degli artt. 1208 e 1209 c.c. purché espressa in modo tale da escludere ragionevoli dubbi sulla concreta intenzione della parte di adempiere e, dunque, a tal punto seria e concludente da far ritenere un'effettiva e puntuale volontà di adempimento a fronte del trasferimento del bene, comunque a tale adempimento condizionato. Cassazione Civile Cass. civ., Sez. III, 22.05.2015, n. 10546 Svolgimento del giudizio. Nel settembre 2001 A.B. e C.D.Q convenivano in giudizio F.S. e M.G.B., chiedendo che venisse pronunciata sentenza ex articolo 2932 cod.civ. di trasferimento a loro favore di un complesso immobiliare già dedotto in un preliminare di vendita del luglio 2001, e per il quale essi promissari acquirenti offrivano a borsa aperta il saldo ancora dovuto (2,8 miliardi di lire). A sostegno della domanda deducevano che i promittenti venditori, pur avendo ricevuto, nei termini prestabiliti, acconti complessivi per 200 milioni di lire, avevano in più occasioni mostrato inequivoca volontà di non adempiere il preliminare, offrendo in vendita il compendio immobiliare ad altre persone. Nella costituzione in giudizio dei convenuti - che contestavano il proprio inadempimento deducendo, al contempo, l'inadempimento degli attori nel pagamento di un ulteriore acconto (di 1,4 miliardi di lire) entro il termine essenziale pattuito - interveniva la sentenza n. 928/09 con la quale l'adito tribunale di Verona, in accoglimento della domanda, trasferiva agli attori la - proprietà degli immobili, sotto condizione del pagamento del , residuo prezzo. Interposto appello da F.S. e M.G.B., veniva emessa la sentenza n.1422/11 con la quale la corte di appello di Venezia, in riforma della prima decisione: - respingeva la domanda degli attori; - disponeva che i convenuti restituissero l'acconto ricevuto, con trattenimento della caparra; - condannava gli attori alle spese di entrambi i gradi di merito. Avverso questa sentenza A.B. e C.D.Q. propongono ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi; resistono con controricorso F.S. e M.G.B., i quali hanno altresì proposto un motivo di ricorso incidentale. I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c.. Motivi della decisione. § 1.1 Ragioni logiche e giuridiche inducono a trattare dapprima il ricorso incidentale di F.S. e M.G.B., in quanto incentrato sul presupposto stesso dell'azione costitutiva di trasferimento, insito nella mancanza di consenso da parte dei promittenti venditori. Con l'unico motivo di ricorso incidentale essi lamentano, in particolare, violazione o falsa applicazione dell'articolo 2932 cod.civ., per avere la corte di appello erroneamente affermato l'interesse degli attori ad agire ex articolo 2932 codice civile, nonostante che, al momento dell'introduzione del giudizio, il termine di adempimento posto a loro carico (perfezionamento del rogito entro il 31 ottobre 2001) non fosse ancora maturato; così da non potersi configurare alcun inadempimento di parte promittente venditrice. §. 1.2 La doglianza è infondata. La corte di appello (sent. pagg.4 e 5) ha affermato l'interesse ad agire dei promissari acquirenti ex articolo 2932 cit. poiché l'istruttoria compiuta aveva confermato che il F.S., nell'estate 2001 e dopo la stipula del preliminare dedotto in giudizio, aveva "incoraggiato e coltivato" (anche con l'intervento di mediatori e dispiego di planimetrie) trattative di vendita a terzi dello stesso compendio immobiliare; sottacendo, allo scopo, la circostanza che quest'ultimo fosse già stato promesso agli attori. La valutazione del quadro probatorio (basato essenzialmente su convergenti e qualificate dichiarazioni testimoniali) deponeva dunque per ritenere dimostrato "Il comportamento del F.S. il quale, in violazione del principio di buona fede contrattuale, nonostante l'impegno assunto con gli attori, intavolava trattative con terze persone per la vendita dell'immobile già promesso agli attori. Tale comportamento legittima la proposizione dell'azione ex articolo 2932 codice civile, l'unico mezzo che poteva assicurare ai promissari acquirenti l'effettiva acquisizione dell'immobile" (sent. pag.6). Ora, l'accertamento in fatto così compiuto dal giudice di merito deve costituire un punto fermo ed intangibile nell'affermazione dell'inadempimento dei convenuti, il cui comportamento, in contrasto con l'obbligo di buona fede nell'esecuzione del contratto, denotava, a giudizio della corte di appello, univoca volontà di non dare corso al preliminare, così come stipulato con gli attori; dai quali avevano d'altra parte già ricevuto acconti per 200 milioni di lire. Questo convincimento - tanto più a fronte di una censura incidentale basata esclusivamente sulla violazione o falsa applicazione di legge, non già su carenze motivazionali - non può trovare qui smentita, costituendo espressione di una tipica valutazione di merito; a sua volta derivante da una determinata e concorde ricostruzione, da parte dei giudici di primo e secondo grado, della fattispecie concreta sulla base delle prove conseguite. Significativo è che, in proposito, i ricorrenti incidentali sollecitino espressamente la cassazione della sentenza su questo punto in esito ad una diversa e più esauriente "analisi delle risultanze istruttorie" da parte del giudice di appello; con ciò palesando di voler (inammissibilmente) invalidare il giudizio della corte territoriale proprio sotto il profilo dell'accertamento in fatto del loro inadempimento agli obblighi derivanti dal preliminare e, segnatamente, attraverso una diversa e più gradita valutazione probatoria. Quanto allo stretto profilo della conformità normativa della decisione impugnata, rileva che correttamente la corte di appello ha individuato il presupposto dell'azione ex articolo 2932 cod.civ. nell'inadempimento al preliminare da parte dei promittenti venditori. Inadempimento colto sia nella sua attualità, di violazione dell'obbligo di buona fede nell'esecuzione del contratto (obbligo che avrebbe dovuto indurre i promittenti venditori ad astenersi dal dedurre gli immobili in concrete trattative di vendita a favore di terzi); sia nella sua inequivoca proiezione futura, di evidente volontà di sottrarsi all'adempimento del preliminare. Anche quest'ultimo profilo deve reputarsi in linea con il presupposto normativo dell'azione ex articolo 2932 cod.civ., posto che l'inadempimento contrattuale può concretarsi anche prima della scadenza prevista per l'adempimento, qualora il debitore – in violazione dell'obbligo di buona fede - tenga una condotta incompatibile con la volontà di adempiere alla scadenza (Cass. n. 23823 del 21/12/2012). Va d'altra parte considerato come sia stata proprio l'anticipata manifestazione della volontà di non eseguire il preliminare da parte dei promittenti venditori a determinare nei promissari acquirenti l'interesse concreto ed attuale a proporre, anche prima della data fissata per il rogito di trasferimento, la domanda ex art.2932 cod.civ.; la cui trascrizione, ex art. 2652 n. 2) cod.civ., li tutelava nell'ipotesi di alienazione dell'immobile a terzi. Nemmeno in ciò, in definitiva, si ravvisa un profilo di violazione normativa; posto che l'azione ex art. 2932 cod.civ. Può essere proposta anche prima della scadenza del termine di adempimento, qualora risulti già conclamata la volontà di non adempiere dell'altra parte. § 2.1 Venendo con ciò al ricorso principale, A.B e C.D.Q. lamentano, con il primo motivo, violazione o falsa applicazione dell'articolo 2932, secondo comma, cod.civ.. Ciò perché la corte di appello avrebbe erroneamente affermato il loro inadempimento all'obbligo di corrispondere l'ulteriore acconto pattuito, ovvero di farne offerta formale, nonostante che tale acconto (scadente nell'ottobre 2001), non fosse ancora esigibile al momento dell'atto introduttivo del giudizio; con conseguente sufficienza di un'offerta non formale, attestante la loro seria volontà di adempiere (tra l'altro, nella specie dedotta in un'offerta 'a borsa aperta' non del solo acconto, ma dell'intero saldo-prezzo). § 2.2 La censura è fondata. La corte di appello - ritenendo di fare con ciò applicazione di quanto stabilito dalla S.C. con sentenza n. 26226 del 13/12/2007 - ha ravvisato l'inadempimento dei promissari compratori nel non aver corrisposto il prezzo, né formulato offerta formale del medesimo; offerta formale asseritamente resa qui indispensabile, ai sensi del secondo coma dell'articolo 2932 cc, dalla circostanza che il pagamento di un acconto (1,4 miliardi di lire) fosse stato dalle parti pattuito per il giorno prima della data fissata per il rogito (al più tardi, il 31 ottobre 2001). In effetti, la sentenza di legittimità citata dalla corte di appello ha affermato che: "in tema di contratto preliminare, ai fini dell'accoglimento della domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932. cod. civ. è sufficiente la semplice offerta non formale di esecuzione della prestazione in qualsiasi forma idonea a manifestare la relativa volontà soltanto se le parti abbiano previsto il pagamento del prezzo, o del residuo prezzo, contestualmente alla stipula del contratto definitivo. Se, invece, il pagamento del prezzo o di una parte di esso deve precedere la stipulazione del contratto definitivo, la parte è obbligata, alla scadenza del previsto termine, anche se non coincidente con quella prevista per la stipulazione del contratto definitivo, al pagamento, da eseguirsi nel domicilio del creditore o da offrirsi formalmente nei modi previsti dalla legge, non - sussistendo in tale ipotesi nessuna ragione che giustifichi la sufficienza dell'offerta informale; in caso contrario, colui che è tenuto al pagamento è da considerarsi inadempiente e non può ottenere il trasferimento del diritto, ove la controparte sollevi l'eccezione di cui all'art. 1460 cod. civ.". La presente fattispecie è tuttavia connotata da una peculiarità che non rende del tutto calzante il principio di diritto testè riportato; riferito alle ipotesi (che sono quelle normalmente ricorrenti) in cui la domanda ex art. 2932 cc venga proposta successivamente alla scadenza dei termini fissati dalle parti per il pagamento del prezzo e la stipula del definitivo (v.Cass. 10469/01; Cass.4365/02; Cass. 20867/04; Cass. 25144/14). Nel caso in esame, invece, il giudizio ex articolo 2932 cc è stato introdotto (settembre 2001) prima, tanto della data fissata per la corresponsione di un'ulteriore rata di acconto (30 ottobre 2001); quanto della data fissata per il rogito (31 ottobre 2001); quanto, ancora, della data fissata per il saldo-prezzo (novembre 2001, dopo il rogito). Ne deriva che il pagamento del prezzo, in base agli accordi del preliminare, doveva qui avvenire in parte prima del rogito (il giorno precedente) ed in parte dopo (nel mese successivo) ma, in ogni caso, né l'ulteriore rata di acconto né il saldo erano per contratto già esigibili nel momento in cui i promissari acquirenti agirono ex articolo 2932 cc; sicché in tale momento questi ultimi non potevano ritenersi inadempienti, poichè i convenuti non avevano diritto di esigere la loro prestazione. In tale situazione doveva dunque farsi integrale applicazione del disposto del secondo comma dell'articolo 2932 cod.civ., secondo cui la parte che agisca in via costitutiva non è tenuta ad eseguire la sua prestazione, né a farne offerta formale, qualora tale prestazione "non sia ancora esigibile" al momento della domanda. Va del resto considerato che la 'ratio legis' sottesa al secondo comma della norma in esame riposa sulla inesistenza dei presupposti di corrispettività per disporre il trasferimento del bene in esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre, ogniqualvolta la parte che domandi tale trasferimento risulti essa stessa inadempiente, per non aver eseguito (ovvero offerto nei modi di legge) la propria prestazione già scaduta al momento della domanda. Si tratta, all'evidenza, di una 'ratio legis' che non ha modo di operare allorquando la parte chieda il trasferimento del bene ex articolo 2932 cod.civ. in un momento in cui la prestazione a suo carico non sia ancora scaduta (nella specie: né per il saldo-prezzo, da corrispondersi addirittura dopo il definitivo, né - . per l'ulteriore rata di acconto). In definitiva - in ipotesi di inesigibilità per mancata venuta a scadenza della prestazione della parte attrice al momento dell'introduzione del giudizio ex art.2932 cc - deve ritenersi necessaria e sufficiente un'offerta di adempimento anche non formale o per intimazione ai sensi degli artt. 1208 e 1209 cod. civ.; purché espressa in qualsiasi modo che escluda ragionevoli dubbi sulla concreta intenzione della parte di adempiere e, .. dunque, a tal punto seria e concludente da far ritenere un'effettiva e puntuale volontà di adempimento a fronte del trasferimento del bene, comunque a tale adempimento condizionato (Cass. n. 10139 del 27/09/1991; Cass. n. 3660 del 28/05/1988; Cass. n. 9176 del 11/07/2000). Ed in effetti integra i presupposti di concludenza e serietà l'offerta della prestazione formulata in giudizio dalla parte, personalmente o per mezzo del suo procuratore, prima della pronuncia ed in funzione di questa; ovvero la manifestazione di volontà di corrispondere il residuo prezzo di vendita, come rappresentata nell'atto di citazione del promissario acquirente, sottoscritto dal procuratore (Cass. n. 5151 del 03/04/2003; Cass. n. 26011 del 23/12/2010). § 3.1 Con il secondo motivo di ricorso (e 'secondo bis') A.B. e C.D.Q. deducono violazione o falsa applicazione dell'articolo 1457 cod.civ. Ciò perché la corte di appello avrebbe erroneamente posto a loro carico il mancato rispetto del termine essenziale, nonostante che di termine essenziale a favore dei promittenti venditori non potesse parlarsi nell'ipotesi di inadempimento da parte di costoro all'obbligo di trasferire il bene (così come accertato dalla stessa corte territoriale); né in pendenza di un giudizio da loro proposto per ottenere sentenza costitutiva del consenso mancante. Con il terzo motivo di ricorso si deduce erronea disapplicazione dell'articolo 1460 cod.civ. (eccezione di inadempimento), per „avere la corte di appello ritenuto legittimo il recesso intimato dai promittenti venditori, successivamente all'atto di citazione, per il preteso inadempimento di essi promissari acquirenti nella corresponsione dell'acconto; nonostante che fossero gli stessi convenuti a risultare inadempienti, già prima dell'introduzione del giudizio, al loro obbligo di trasferimento degli immobili. Con il quarto motivo di ricorso viene dedotta - ex art.360, 1^ co. n. 5 cod.proc.civ. - contraddittorietà della motivazione, per avere la corte di appello, da un lato, accertato l'inadempimento dei promittenti venditori e, dall'altro, ritenuto legittimo il loro recesso a fronte di un successivo preteso inadempimento di essi promissari acquirenti. § 3.2 Si tratta di doglianze suscettibili di trattazione unitaria, in quanto tutte accomunate dall'erronea regolazione della controversia, da parte della corte di appello, nell'ambito della disciplina dell'inadempimento reciproco ex articolo 1460 cod.civ.. La loro fondatezza consegue direttamente dall'accoglimento del primo motivo di ricorso principale, come testè ritenuto. E' infatti evidente come - una volta definitivamente appurato dal giudice di merito l'inadempimento dei promittenti venditori (supra, § 1.2), ed una volta escluso che i promissari venditori potessero reputarsi a loro volta inadempienti con riguardo a prestazioni non ancora esigibili al momento dell'introduzione del giudizio ex articolo 2932 cc (supra, § 2.2) - non vi fosse spazio alcuno per configurare una contrapposizione comparativa di inadempimenti tale da rendere legittimamente opponibile da parte dei convenuti l'eccezione ex articolo 1460 cit.. Sicchè a ragione la corte di appello ha osservato (v. sent. pag.6, salvo poi non far discendere, da tale affermazione, coerenti conseguenze) che, in tale situazione, la proposizione dell'azione ex articolo 2932 cc costituiva "l'unico mezzo che poteva assicurare al promissari acquirenti l'effettiva acquisizione dell'immobile", in alternativa ad una tutela meramente risarcitoria del loro diritto. La non invocabilità dell'eccezione di inadempimento da parte dei promittenti venditori vale anche sotto lo specifico profilo del mancato rispetto, da parte dei promissari acquirenti, del termine di corresponsione dell'ulteriore rata di acconto; posto che, da un lato, anche il pagamento di quest'ultima era stato tempestivamente ed efficacemente dedotto, unitamente al saldo, nell'offerta di pagamento contenuta nell'atto di citazione antecedente alla scadenza prevista dal contratto preliminare; e che, dall'altro, una volta introdotta ex art. 2932 cod.civ. la domanda costitutiva del consenso mancante, i promittenti venditori non avevano più titolo di invocare, con il recesso, l'essenzialità di termini di pagamento successivi e contenuti in un contratto da essi stessi inadempiuto. Ne segue il rigetto del ricorso incidentale e l'accoglimento di quello principale; con conseguente cassazione della sentenza impugnata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, sussistono i presupposti per la pronuncia nel merito ex art. 384 2^ co. c.p.c., mediante rigetto dell'appello proposto da M.G.B. e F.S. avverso la sentenza n.928/09 del tribunale di Verona. Si condanna infine parte appellante e ricorrente incidentale, in ragione della sua soccombenza, alla rifusione delle spese del grado di appello e del presente giudizio di cassazione; spese che si liquidano, come in dispositivo, ai sensi del DM 10 marzo 2014 n. 55. Pqm La Corte - accoglie il ricorso principale; - respinge il ricorso incidentale; - cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito ex art.384 2^ co.cpc, respinge l'appello proposto da Maddalena Giuseppina Benamati e Franco Saglia avverso la sentenza n.928/09 del tribunale di Verona, che conseguentemente conferma; - condanna parte appellante e ricorrente incidentale al pagamento delle spese del giudizio di appello, che liquida in euro 16.000,00, di cui euro 600,00 per esposti ed resto per compenso professionale; nonché di quelle del presente giudizio di cassazione, che liquida in euro 15.200,00, di cui euro 200,00 per esborsi ed il resto per compenso professionale; oltre rimborso forfettario spese generali ed accessori di legge. Così deciso nella camera di consiglio della terza sezione civile in data 11 marzo 2015. |
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